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Come adottare uno stile educativo positivo

Intervista a Valentina Molin, collaboratrice di ricerca del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento


Abbiamo chiesto a Valentina Molin, collaboratrice di ricerca del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento, di parlarci di stili educativi e di dare alcuni consigli per adottare un approccio positivo.

Come si differenziano i diversi stili educativi?
A livello tassonomico, tra gli stili educativi possiamo distinguere lo stile autoritario, quello permissivo, quello schizofrenico e quello della disciplina positiva.
Lo stile autoritario comporta un livello di ordine importante e una totale mancanza di libertà. Il suo principio cardine è “lo fai perché lo dico io”. È uno stile che non permette di entrare in relazione, che non consente la mediazione e che non pone attenzione alle ragioni che hanno dettato un comportamento. Utilizza in maniera abbastanza massiva la punizione, che è massimamente funzionale per interrompere un comportamento: in effetti lo blocca, ma lavora solo sull’elemento sintomatico e non risolve il problema alla base.
Poi c’è lo stile permissivo. È la risposta che a volte adottano i genitori che pensano “Mi ricordo perfettamente quanto brutto è stato quando i miei mi trattavano in maniera autoritaria e allora farò il contrario”. Viene concessa un’assoluta libertà – “Fai tutto quello che vuoi” – però senza ordine. Dunque, diventa presto ingestibile e anche disfunzionale, perché tutti i bambini e i ragazzi abbisognano anche di una serie di elementi di contenimento, ossia di regole che vengano effettivamente rispettate. In quest’ottica la regola è un modo per dire: tengo a te, non abdico al mio ruolo educativo nei tuoi confronti.
Lo stile che però ultimamente, a mio avviso, è più praticato e che probabilmente è il più pericoloso, è quello schizofrenico, che unisce le parti peggiori dello stile autoritario e di quello permissivo nel match: sgridali e poi accontentali. A volte anche accontentali e la volta dopo, per lo stesso tipo di comportamento, sgridali. Qui viene a mancare la coerenza educativa, il punto di riferimento e il giovane non è più in grado, a ragione, di comprendere quale sia l’aspettativa adulta nei suoi confronti.

E poi c’è lo stile della disciplina positiva.
Lo stile della disciplina positiva cerca di mettere delle regole, in un quadro ove però ci siano anche opzioni di scelta. Si potrebbe dire che prenda le parti migliori dello stile autoritario e di quello permissivo. I docenti e in generale gli adulti di riferimento che adottano questo approccio cercano di seguire una modalità gentile e rispettosa, ma al contempo ferma e coerente, che sia terreno fertile per poter prendere le decisioni insieme, in modo concertato. Anche perché in questo modo è possibile gestire correttamente i due elementi fondamentali: quello del rispetto, elemento orizzontale, e quello dei ruoli, elemento verticale.

Perché porre attenzione al rispetto reciproco è fondamentale?
Rispetto e ruoli sono due elementi distinti. Il rispetto dovrebbe sempre essere reciproco e privo di elementi gerarchici. Ma non di rado il rispetto nei confronti dei ragazzini è manchevole, spesso a causa di comportamenti agiti inconsapevolmente, come il tono della voce, la postura. Io, ad esempio, a volte vedo insegnanti che non dicono “Per cortesia, potresti mettere via il telefono?”, ma “Metti immediatamente via quel telefono!”. Eppure, con un collega non userebbero mai questo approccio.
Il ruolo prevede invece gerarchie ed oneri specifici. Gli adulti hanno il compito di guidare i giovani, lasciando loro spazi di libertà per sperimentarsi ma garantendo anche una presenza ferma e capace di porre in essere conseguenze coerenti quando necessario.

Come si lega il tema del rispetto con quello del giudizio?
Dovrebbe essere chiaro che noi siamo a scuola per giudicare la performance dello studente e non la sua persona. Ma il linguaggio che viene usato molte volte ha in sé elementi aggressivi e violenti. Questo è un portato culturale antico, che ancora fatichiamo molto a scardinare e ad abbandonare. “Non capisci niente di matematica” è un’attribuzione al soggetto, non è un’attribuzione alla performance. Ma se anziché dire “Non capisci niente di matematica” io dico “Cavoli, questo compito non lo abbiamo fatto bene”, inserisco un fondamentale elemento di corresponsabilità e di sguardo al futuro. Perché, se tu non l’hai fatto bene, forse è anche perché io non ho spiegato abbastanza chiaramente e non mi sono soffermato a sufficienza su un concetto che per te era complesso. Ciò consente anche di iniziare ad interiorizzare l’idea che l’errore è un efficace modo per apprendere e non un’onta sociale.
Purtroppo, non abbiamo ancora assorbito profondamente il pensiero per cui sbagliare è una parte fondamentale del processo di apprendimento e impariamo molto di più quando sbagliamo che non quando facciamo correttamente. Se quindi siamo in grado di giudicare esclusivamente la performance e non la persona, possiamo preservare tutto quanto riguarda la sua autostima. Ossia: “Io non sono il mio compito di latino, io sono una persona con qualità e limiti e questo compito non è andato bene, ma credo e spero che il prossimo andrà meglio”.

Adottare un’ottica di lungo periodo può aiutare…
Sì, è importantissimo cercare di avere una visione di lungo periodo e avere fiducia nel processo. Dunque, ricordare che può essere irrilevante quello che sta accadendo in questo momento, perché ho una visione di ciò che accadrà, che è più ampia: so che una caduta può essere assolutamente funzionale al successo. E quindi, quando le cose vanno male, io dovrei incoraggiare i miei studenti e non soffermarmi su quello che è successo fino a quel momento. Dovrei guardare al futuro e dire “Ok, questo compito non è andato bene. Cosa possiamo fare affinché il prossimo vada meglio? Aiutami a capire che cosa non hai capito, così ci lavoriamo insieme”.

Come non cedere alle lusinghe del potere?
Il potere è lo strumento che usiamo quando non sappiamo cosa fare. A volte i ragazzi sono estremamente faticosi e chiudere una situazione per noi difficile utilizzando una posizione di supremazia è molto semplice. È una scorciatoia che ci preserva anche dal metterci in discussione come adulti di riferimento. Lo stile della disciplina positiva è sicuramente impegnativo, specialmente quando lo si inizia a sperimentare, perché richiede di mettersi in gioco sinceramente all’interno del rapporto con i ragazzi e avere una visione di lungo periodo. E può fare paura perché nel mettermi in gioco posso sbagliare, esperire impotenza, senso di inefficacia. Inoltre richiede curiosità perché, se voglio attirare la tua attenzione e incuriosirti, devo essere io la prima ad essere curiosa di te e di quello che hai da dire. Dunque devo partire dal presupposto che il nostro possa essere uno scambio interessante. La comunicazione, se si vuole creare una relazione, non può essere univoca e l’ascolto attivo dell’altro è un elemento imprescindibile.
Rispetto all’espediente del potere, lo stile della disciplina positiva ci invita a stare nell’incertezza e a cercare la collaborazione dei ragazzi, con gentilezza e fermezza, soprattutto quando le cose non stanno funzionando, quando quello che io sto mettendo in atto non sta manifestando efficacia. E allora posso dire, ad esempio, “Cavoli ragazzi, io devo proseguire con il programma ma oggi state facendo una tale confusione che non riesco a fare lezione. Come possiamo fare?”. E poi bisognerebbe ricordare che gli atteggiamenti sfidanti o aggressivi hanno sempre delle cause sottostanti, sono manifestazioni disfunzionali di un malessere. Quindi anche di fronte a dei comportamenti oggettivamente maleducati, anziché cedere alla frustrazione ed avere un atteggiamento reattivo, sarebbe opportuno provare a dirsi “Ok, questo comportamento sfidante non è rivolto a me, non è una questione personale, ma è la manifestazione di un malessere di questa persona”. Si tratta di fare lo sforzo, in qualità di educatore, di andare al di là della manifestazione sintomatica, lavorando, se possibile, sulle cause.
Un’ultima cosa: se si assume che l’errore è un efficace modo per apprendere, consideriamo che sbaglieremo innumerevoli volte come adulti. Imparare ad avere compassione di sé è il primo passo. Solo se si ha uno sguardo positivo incondizionato verso sé stessi lo si può avere verso altri. Ma questo l’aveva già detto molti anni fa Carl Rogers, psicologo statunitense, padre della Psicologia Umanistica, “Cavoli! Forse abbiamo sbagliato qualcosa, riproviamoci, insieme ai ragazzi!”.

Foto: Choreograph – iStock


Pubblicato il 1 Dicembre 2023 da eduEES

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